Milano è stronza, punto.
Non in senso dispregiativo. E’ una città “difficile”, perché tutto corre, perché tutto è super o iper. Iper cinetica, super ricca, super costosa, iperbole del movimento incessante, che, se qualcuno osa fermare, viene subito redarguito o guardato male.
Milano ha tante cose belle, tante opere d’arte, chiese nascoste, luoghi magici. Eppure nessuno ci fa caso. Forse perché noi milanesi parliamo poco e tanto. Troppo poco delle bellezze che ci può offrire la pinacoteca di Brera in un pomeriggio di noia, dell’estasi dell’Ultima Cena di Leonardo o degli affreschi del Tiepolo a palazzo Clerici. Parliamo tanto delle pirlate (termine prettamente milanese).
Ogni milanese che conta, ha una bella macchina, la casa a Santa (Santa Margherita Ligure per i profani) e d’inverno va a Courma (Courmayeur, sempre per i profani).
Io parlo facilmente, perché ora sono a Roma, e ci vivo per tanto tempo all’anno e da tanti anni.
Ma sento di essere milanese. Perché a Milano sono nato, ho la mia famiglia, la mia casa di quand’ero bambino, ho le mie radici. Cavolo, sembra il discorso del Berlusca quando è sceso in campo! Però è così.
Quando penso al movimento e alla frenesia di Milano, la paragono ad una piccola New York. Milano è voluta crescere in fretta in questi ultimi venti anni. Per chi non l’ha visto, godetevi il piacere di una serata in famiglia con il film “Il ragazzo di campagna” con il mitico Renato Pozzetto, che fa il suo ingresso in città con il trattore, poi costretto a prendere un taxi per attraversare Piazza San Babila, perché travolto dalla marea di gente della metrò.
Ma io so perché Milano è così. Perché i Milanesi sono così. Hanno il Porsche, dicono della moglie “la mia donna” e sono sempre pettinati (vestiti bene, sempre per i meno adusi al linguaggio meneghino).
Milano ha dovuto combattere. Mi spiego meglio. Questa città è stata praticamente rasa al suolo durante il secondo conflitto mondiale. Più di tutte le altre città dell’Italia settentrionale. Roma è stata toccata poco o niente, se escludiamo il quartiere San Lorenzo. Milano è stata ferita a morte, dilaniata, perseguitata.
Dall’ operosità dei miei concittadini, dalla voglia di lavorare duro e non mollare mai la metropoli, perché questa è Milano adesso, è miracolosamente rinata.
Forse Vittorio de Sica con ”Miracolo a Milano” ha voluto omaggiare la piccola mela di Milano, perché in fondo le riconosceva una energia e voglia di fare che nessuno aveva. Finisce la guerra e il film, girato in forma di fiaba, ci narra di un posto dove buongiorno voglia davvero dire buongiorno.
Mio nonno Filippo, grande farmacista, titolare dell’omonima farmacia a città studi, quartiere posto nel quadrante sud-est della città, durante i bombardamenti, smontò la sua amata Lancia Aprilia cabriolet, carrozzata Pininfarina, con cui aveva, da giovanotto benestante qual’era, scorrazzato tra Milano e Pavia, dove si laureò. Questo per paura che i tedeschi gliela sequestrassero. Girava in bicicletta.
La mia famiglia, composta da mio padre, mia zia, mia nonna, fu sfollata, fuori Milano in Brianza. Il poveretto si faceva chilometri di pedalate per vederli.
Quando nel 1943, di notte, i raid su Milano infuriavano, scrisse un testamento, che conservo tuttora. Recita cosi:” Cara Clara, questa notte sono qui solo a Milano e voi lontani da me. E’ dura, anzi, durissima. Chissà cosa ne sarà di noi. Ti lascio tutto quello che ho. Bada ai bambini, e vivi una esistenza felice. Dai un occhio a mia madre, che tanto mi ha aiutato, quando mio padre mori’ in giovane età, tuo per sempre e devotamente, Filippo”.
Il resto, come dire, è storia. L’11 Maggio 1946, si tenne Alla Scala il primo concerto del teatro ricostruito sotto l’egida e la direzione del maestro Arturo Toscanini, in seguito ai succitati bombardamenti nella notte tra il 15 e il 16 Agosto 1943.
L’allora sindaco di Milano Antonio Greppi ed il maestro, furono anche artefici della incredibile ricostruzione. Infatti, il Toscanini, nei suoi mesi di esilio negli Stati Uniti, aveva raccolto somme di denaro, durante una serie di concerti benefici, proprio per finanziare ed accelerare la ricostruzione. Ci riuscì e restituì quella dignità che Milano aveva smarrito, con una tenera carezza musicale.
Vi annoio, spero di no. Questa è storia sbarbati! Direbbe un milanese.
Nel 1950, si scoprì che intorno a Milano vi erano importanti giacimenti di gas naturale. L’ENI, grazie alla lungimiranza di Enrico Mattei, non solo non venne sciolta, ma giocò un ruolo decisivo nella crescita economica del paese.
Si costruì persino un quartiere, “Metanopoli” nella periferia sud di Milano, che diede lavoro a migliaia di persone.
Poi non scordiamo le fabbriche che a Milano già esistevano e che crearono il fenomeno dell’immigrazione di massa. Ah, la capitale del Miracolo! Ah il boom economico e gli anni “sessanta”!
Vi faccio alcuni nomi, sennò, vado lungo, e la Vanoni si spacca le balle.
Breda, Alfa Romeo (in quella che oggi si chiama “il Portello”), Innocenti, OM, Pirelli, Falck.
Poi cosa succede? Che si delocalizza. Le aziende si trasferiscono all’estero, per i grandi costi di manutenzione, o acquisite da gruppi multinazionali.
Si parla di Società post industriale. Più che altro, io parlerei di anni di piombo.
Uno dei periodi più neri per Milano e l’Italia. Ma qui io parlo di Milano e quindi stop, punto. Non voglio spendere tante parole. Tutto iniziò quel 12 Dicembre del 1969, considerata “la madre di tutte le stragi”.
Da quel giorno, Milano precipitò di nuovo in una caverna buia, fatta di odio, rancore, livore, morti, tentati omicidi e attentati. Ripeto non voglio soffermarmi troppo su questo, perché rischierei di rovinare il bel clima di Milano. Ma la storia è storia, e non posso esimermi dal fare dei cenni.
Si parte dal caso Pinelli, reputato uno dei mandanti della strage, il cui suicidio rimane ancora un mistero. La vedova del Pinelli presentò denuncia contro il Commissario Calabresi che mori nel 1972, in un attentato, a mano di terroristi di estrema sinistra. Poco fa ho letto un libro di un poliziotto, poi diventato Questore, poi Prefetto, anche qui a Roma: Achille Serra.
A Milano non si viveva più. Si sparava nel mucchio, si rapiva, anche con i mitra. Una violenza che toccava chiunque.
Ogni Sabato, tra il 1968 ed il 1980, era una battaglia. Macchine incendiate, molotov, lacrimogeni. Nessuno usciva tranquillo. Il povero Calabresi, non è stato ucciso solo nel 1972, ma veniva ucciso ogni giorno: sui muri, sui giornali, sui documenti, anche dagli intellettuali.
C’era di tutto, dalle Brigate Rosse, alle Nere. Si sparava all’operaio, all’industriale, al poliziotto. Al giornalista. Come dimenticare la gambizzazione di Indro Montanelli e l’assassinio di Walter Tobagi. La città, la mia Milano, la Milano che io non ho vissuto reagiva. In maniera violenta.
Il gioielliere Torreggiani, spara durante una rapina nel 1979, muore un bandito, ma muore pure lui, ad opera dell’esimio Cesare Battisti, estradato pochi anni fa. La morte di Sergio Ramelli, nel 1975. E poi, nel frattempo, Vallanzasca, Turatello ed Epinamonda sparavano e gestivano un importante traffico di sostanze stupefacenti, facendo da base logistica alle cosche malavitose del sud Italia.
Poi succede che la politica, che fa il buono ed il cattivo tempo di ogni cosa, consente alle Brigate Rosse di avere quello che sempre avevano voluto: uno di loro, un politico,1978, Aldo Moro. Da quel momento, paradossalmente, le stragi non finiscono, ma, Milano si riassesta.
Le ceneri della guerra sono il Monte Stella di Milano e la montagnetta del parco Lambro. Le targhe di quelli che non ci sono più sono testimonianza di una Milano che non dimentica e che va avanti.
Siamo negli anni Ottanta, e Milano resta sempre il centro del potere politico, economico, finanziario. Politico sì, perché anche il fascismo nacque a Milano, in piazza san Sepolcro. Politico, perché proprio nei famigerati anni “ottanta” la città era assurta a centro di potere in cui si esercitava l’egemonia del Partito Socialista Italiano e del suo leader: Craxi.
La “Milano da bere”, adoriamo questa espressione. Benessere diffuso, rinnovata tranquillità, rampantismo arrivista e opulento ostentato dai ceti sociali emergenti e dall’immagine della moda. Yuppies e paninari, che rifuggono da ogni forma di pensiero ed impegno politico e sociale.
Stile di vita fondato sull’apparenza, sul consumo, abbigliamento griffato e linguaggio codificato.
Insomma chi sono io per dirvi che dovete assolutamente ed inderogabilmente guardare cult movies come “Un povero ricco” con Pozzetto, Yuppies, Yuppies 2 e Ricky e Barabba (Il ragazzo di campagna l’ho già citato).
Ma ve lo ricordate o no Guido Nicheli in Vacanze di Natale 1983: “Amore, fai ballare l’occhio sul tic, Milano via della Spiga, Cortina Hotel Cristallo, due ore quarantacinque minuti e cinquantaquattro secondi: Alboreto is nothing”.
Ma questi qui, dico questi tipi milanesi, dove andavano a cena fuori, super tirati e poi in locali seri ?
“Amnesie” locale top, il “Rolling Stone” ricavato dal cinema ambrosiano in Corso XXII Marzo, nato nel 1979, simbolo di trasgressione e del “tutto è possibile”. Uè ciccini, qui hanno cantato e suonato artisti del calibro di Joe Cocker, Bob Geldof, Lou Reed, Iggy Pop, The Ramones Tina Turner e Gli Oasis.
Lo Shanghai? Nato per caso, se non che una sera come tante, ti arriva il Giorgio Armani, e al seguito un illustre ospite. Capita che, suddetto ospite, decida di sottrarre la chitarra ad uno dei musicisti, che incredulo la dà nelle mani del signor Eric Clapton, che esegue qualche suo brano. Da quel dì Shanghai, diventa l’olimpo dei locali meneghini.
Il Charlie Max, discoteca più orientata al night club, con persone over 40, piene di soldi e immancabili modelle. Il tipico locale dei ganassa della Milano da bere, dove scorrevano fiumi di champagne e polvere bianca in dosi massicce. Quello che ce l’aveva fatta, andava lì la sera. Il Derby, piccolo localino, che ha fatto la storia, dove sono nate intere generazioni di attori oggi affermati: Massimo Boldi, Diego Abatantuono, Giorgio Faletti, Enzo Jannacci, Cochi e Renato Pozzetto, per citarne alcuni. Il Piccolo Teatro di Strehler, che fece innamorare la superba Ornella Vanoni.
Poi ci si rilassava. Dopo una frenetica giornata di lavoro a fare business, magari al “Conti club” che aveva piscine, sauna, palestra, centro benessere.
Mia mamma, giovane Dottoressa specializzanda, un giorno, in corsia, compilando una cartella clinica, chiese, ingenuamente ad una paziente, che lavoro facesse. Lei le rispose che era ricca e che scivolava al “Conti”, per l’appunto. Mia madre non capì, forse dovette rivolgersi ai suoi colleghi più esperti.
Ora rimane l’”Harbour Club”, dove si parla di figa, fatturato, macchine e bambini rompicoglioni, tate costose, e mogli spendaccione.
Poi approdiamo agli anni Novanta ed anche qui, Milano fa scuola. Nel bene e nel male. Tangentopoli, Mani Pulite, Mario Chiesa che da direttore del Pio Albergo Trivulzio getta nel cesso una tangente appena ricevuta, arrestato in flagrante. Inizia a capitolare il sistema del partito socialista.
Ma dobbiamo dimenticare gli interrogatori di Di Pietro, gli arresti eclatanti, le manette che tintinnavano, i terribili suicidi di Gardini e Calliari e le dirette davanti al palazzo di giustizia? No, non dobbiamo. Perché hanno dato la stura alla nascita del Berlusconi, anche lui imprenditore visionario, che creava la tv privata, costruiva palazzi e quartieri come “Milano 2” Milano 3, che ancora oggi sono all’avanguardia e fondava un partito che tre mesi dopo vinceva le elezioni politiche: Forza Italia. Vedete, la politica, almeno per un certo periodo è nata qui. Per questo Milano è stata, non a torto definita la capitale morale di Italia.
I quartieri che prima vi citavo, quelli delle fabbriche che venivano dismesse, quelli che erano caduti nel dimenticatoio, sono stati riqualificati.
Milano è moda e design, è piazza Gae Aulenti con il suo “Bosco verticale”, è la rinascita della darsena ai navigli ad opera di Boeri, è la città che ci fa sorridere con il dito medio di Cattelan in Piazza Affari, perché oggi, i soldi, a differenza degli anni Ottanta non sono più così facili e spesso un lavoro qualcuno se lo è dovuto inventare.
Quindi arrivo alla conclusione, perché poi son stufo di parlare di Milano.
Quando mi dicono che Milano non è creativa rispondo che invece è il laboratorio della creatività italiana.
Giò Ponti ed il Pirellone, la sua sedia “superleggera” su cui sono seduto, prodotta da Cassina, la sua lampada “Bilia” prodotta per Fontana Arte.
Castiglioni che progettò lo sgabello Mezzadro e la celeberrima lampada ad Arco per Flos, che ho, accesa in salotto.
Piero Fornasetti, che con Andrea Branzi crea oggetti del quotidiano, trasformandoli in opere d’arte, decorandoli con pesci, farfalle, frutta, e riproducendo il volto di una donna in oltre cinquecento varianti.
Pare fosse il volto di Lina Cavalieri, un archetipo, la quintessenza di una immagine di bellezza classica, come una statua greca, enigmatica come la Gioconda.
Persino Gabriele D’Annunzio dedicò una copia del romanzo “Il piacere” a Lina Cavalieri, definendola la massima testimonianza di Venere in terra, ed Henry Miller la scelse, come copertina della sua autobiografia “My Life and Times”.
Poi la moda, dalle grandi griffe come Prada, Armani, Etrò, Bottega Veneta, Versace, Trussardi, Moschino, Basile, Dolce&Gabbana, hanno sede a Milano e sono nate qui.
Proprio con Armani finisco questo racconto, articolo, post. Vedete voi come definirlo.
Re Giorgio era un ragazzo di Piacenza, che arriva a Milano “che cominciava ad essere una città”. Lavora come commesso alla Rinascente, poi con Cerruti, in Versilia conosce Sergio Galeotti, con cui inizia una storia professionale e sentimentale. La svolta arriva con il film “American Gigolo”, che con le giacche destrutturate e i pantaloni morbidi, hanno reso lo stilista italiano famoso in tutto il mondo e soprattutto a Milano.
Quello che manca a Milano oggi è l’umanità che non c’è più, la fanno da padrona la violenza, la sopraffazione, la criminalità, intesa non come era negli anni di piombo ma come reati contro la persona, furto di orologi, borse, scippi. Non ci si sente più sicuri. Era bello poter uscire la sera, quando nessuno ti dava fastidio.
Milano è bella con la nebbia. Ci sono città di evidente bellezza, che si danno a tutti, altre segrete che amano essere scoperte. Come dicevo prima, Milano appartiene a questa specie, al punto che riesce difficile stabilire le ragioni del suo fascino, e da qui il mio “odi et amo”.
Io credo che esso consista nella sua “classe”, né più né meno, come avviene per certe donne, che ci colpiscono per il loro portamento, anche se belle non sono e magari neppure truccate.
Poi infine c’è il Manzoni che ci dice: ”Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del Duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava meraviglia di cui aveva tanto sentito parlare sin da bambino”. (Tratto da i Promessi Sposi).