“L’ATTESA DELL’ALBA” di Francesco Caringella
Certamente, non è il classico giallo Mondadori-noir, dove i libri di Caringella, noto Magistrato e Consigliere di Stato, prestato alla scrittura, ci propone il più noto schema interpretativo: la ricerca del colpevole di un più o meno efferato delitto, la commissione di un reato, la condanna o la assoluzione, come nell’ultimo testo da lui edito.
E’ un libro più strutturato, quello di Caringella, che ci pone di fronte alla domanda di cosa sia giusto fare per una vita umana messa a repentaglio dalla malattia.
Che impulsi avere, che flussi di coscienza seguire, o se affidarsi, invece, all’algida legge che dice più o meno sempre, e più o meno con precisione, che cosa fare davanti all’antefatto ed al fatto concreto.
Il solito dilemma tra etica e diritto. Un libro che è stato sofferto e, a detta dell’autore, la cui genesi è stata particolarmente lunga.
Posso immaginare che il “navigato” Caringella, non abbia scelto parole a caso, anzi abbia privilegiato un linguaggio ed una scrittura semplice ma efficace, attenta e rispettosa del dolore dell’umana sofferenza.
Sì perché i protagonisti di questo romanzo sono molteplici, a partire da Alberto Martinelli, stimato professore di economia, che conduce una esistenza felice, con una figlia amorevole, una moglie innamorata.
Il tutto fino al giorno disgraziato in cui decide di recarsi a recuperare la ragazza ad una festa di compleanno estiva prima della sua partenza per il college a Londra.
Egli viene investito da un’auto pirata, che lo lascia a terra esanime, e che nel corso degli anni lo porterà alla tetraplegia.
Al contempo abbiamo un giovane avvocato, aduso alla giustizia, sempre dentro e fuori dalle aule dei tribunali, conscio di aver fatto la cosa giusta quando ha scelto di non seguire le orme paterne, svolgendo la professione di magistrato.
Si parla di Giustizia, come è giusto che sia, anche se illusori sono nel nostro ed in altri paesi, concetti come sete di giustizia, febbre di giustizia, voglia, fame ed umanità.
Si parla di imputati che non importa nemmeno se siano innocenti o colpevoli, per il loro difensore. Sono però loro gli imputati gli unici veri protagonisti delle vicende giudiziarie.
Ognuno porta, come logico, una storia unica, ognuno va difeso a spada tratta, perché per l’avvocato Filippo Santini conta il risultato. La morale la lascia ad altri, non è affar suo, dire cosa è giusto cosa è sbagliato, ma solo cosa è legittimo o illegittimo.
Tutto cambia, quando si incrociano le vite di Sandra, la moglie del professore ridotto in fin di vita, e l’avvocato.
Stare lontano da un caso così spinoso, dove sa già, il nostro Filippo, o può sapere, con ragionevole dubbio, di andare incontro ad una sconfitta personale, cosa per lui sgradita, oppure chiedersi, a questo punto, mettendo in gioco la morale accantonata, se la vita sia un diritto o un dovere.
Debbo dire, che nessun autore, aveva così apertamente affrontato il dilemma del fine vita, come Caringella fa, in modo egregio e pacato.
Un dilemma che mette a nudo il significato della vita, il mistero della morte e la nozione di uomo.
Un dramma che è quindi religioso, etico, filosofico, familiare, sanitario e giuridico.
Dice l’autore, una cosa sacrosanta: “Nella malattia, siamo tutti uguali.” E nella malattia si scontrano tormenti e faccende personali. Ognuno reagisce a modo suo nella ed alla malattia. Insomma, bando alle ciance, si mette a nudo la vera anima delle persone, e si lasciano da parte le loro maschere. Non si può fingere di stare bene, quando si è malati. Si vuole lottare per sopravvivere al meglio, con la forza dell’amore altruistico, e la vita ci sembra tanto preziosa, quanto inutile quella che abbiamo perso, in stupide cose, davanti alla morte.
Cosi l’avvocato Filippo Santini, il classico avvocato di successo, che vive a Campo De’ Fiori, ama collezionare donne di cui non si era mai innamorato, conosce un fuoco di vita che si chiama Sandra Martinelli.
Siamo in un pomeriggio di un noioso fine luglio, eppure, al suo ingresso, Sandra raggela il sangue di Filippo. Occhi azzurri, volto pallido, ma labbra carnose e ben disegnate, respiro denso e affannoso.
Filippo viene sorpreso da quel fuoco che tutti noi aspettiamo nella vita, “quando le giornate scorrono uguali e le ore si srotolano senza senso”, dice l’autore.
Abbiamo parlato di coscienza e legge, etica e diritto, ed il romanzo si muove e si snoda proprio in questo fil rouge, che dà al testo un senso compiuto. Almeno cerca di farlo.
Dice l’autore che Sartre ha scritto che il giudice è un uomo travestito da Dio (ma questo, a mio parere non è assolutamente vero). Beccaria lo definiva bouche de loi, io lo definisco come un uomo non comune, che cerca attraverso la verità, la giustizia, la pena, lo sguardo al futuro, una risposta alle domande e alle istanze che gli vengono preposte.
Ma lo fa con l’umana debolezza, l’imperfezione non deistica e divina, ma con le ambizioni ed anche le vanità di ogni essere umano.
Fine e mezzi, ambizioni assolute, e forze esigue. Un compito non facile, che allo stesso tempo pone il giudice in uno stato di atterrimento e sovrastazione.
Peggio quando il giudice ha a che fare con un sofferente, come Alberto Martinelli, che ha deciso di morire, o meglio, si fa per dire, quando il giudice deve valutare di un soggetto che aiuta un altro a porre fine alla sua esistenza.
Ma quali codici o pandette disciplinano tutto questo? Qui si respira il profumo della libertà e l’essenza dell’uomo. E diventa persino difficile scindere la logica del sillogismo: colpevole uguale condanna, uguale pena, dalla tecnica della grammatica dei sentimenti.
Così anche il “povero” Filippo viene ingoiato in questa vicenda, non lottando per difendere un interesse, ma per affermare un valore che ha a che fare con la libertà e la dignità.
Dove l’amore è forte come la morte, perché la morte o lo spettro di essa, ci fa amare la vita ed il significato di ogni attimo di essa, che crediamo, stupidamente, alle volte superfluo.
Il legame che si crea fra i due personaggi Sandra e Filippo, è così forte, che ad un messaggio che recita: “Grazie Filippo, per il tempo che ci hai dedicato, è stato bello incontrarla, ma è tardi, troppo tardi”.
Così il giovane legale, mette in scena la teatralità di un attore consumato, facendosi concedere una pausa dal processo in Corte di Assise che lo vedeva impegnato.
Justice Delayed, is Justice Denied, forse è questo il tema che smuove il libro.
Troppo tardi? Troppo tardi per cosa? Per morire? Così ecco il prodigo Filippo che ferma la sciagurata Sandra, che si era fatta “miscelare” un cocktail di farmaci, da un suo amico medico, per farsi giustizia da sè, se la giustizia non poteva averla da un tribunale: uccidere il marito, che non voleva più vivere.
Filippo è un uomo dilaniato a questo punto, che si confronta fra articoli di giornali che smontano l’idea che l’eutanasia, sia l’unica soluzione, per evitare ai pazienti di soffrire: “queste esigenze, sono soddisfatte, in modo proporzionato, dalle cure palliative e dalla medicina del dolore”.
Non esisterebbe sofferenza dalla quale non si possa venire a capo. Questi uomini, vorrebbero morire, non per sofferenza, ma perché sono soli, perché si sentono abbandonati. Perché si sentono rifiuti umani, scarti di un mondo, che non ha voglia di occuparsi di loro.
Concludo con una descrizione della disciplina del “fine vita” che abbiamo in Italia. Il proposito suicida, secondo la Corte Costituzionale, deve essere espresso a seguito di un processo lungo e burocratico. Poi una oscillazione insopportabile tra disponibilismo ed indisponibilismo, secondo cui non esiste il diritto a rinunciare a vivere, ma il diritto del malato ad essere liberato, in modo rapido dalle sofferenze, anche con l’aiuto di terzi: la cosiddetta “morte medicalilzzata”.
Ma il problema è che la Corte, subordina l’immunità penale dell’aiutante, al presupposto della dipendenza dell’aspirante suicida da trattamenti sanitari salvavita. Macchinari come il respiratore, le flebo per nutrirsi.
Quindi Filippo è in un mare di guai. Ma non si arrende e sceglie il “percorso svizzero”, quello che chiamano il turismo della morte. Gli ultimi istanti in macchina, condotta da Filippo, con il supporto di una anonima infermiera.
I saluti a Gaetano, il fratello tanto amato, quanto incompreso. Poi la fine. Il rientro in Italia, in un’urna.
C’è poi il rifiuto del vicariato, che costringe la famiglia ad organizzare un funerale laico, con la stringata e implacabile motivazione del diniego del rito religioso: Per la Chiesa Cattolica, il suicidio è contrario all’amore del Dio vivente, e rappresenta una offesa al prossimo, perché spezza i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale ed umana, nei confronti dei quali abbiamo degli obblighi, soprattutto per i giovani.
Sempre per il fatto che il malato, non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Poi il processo, a carico di Filippo. Proprio quello che aveva voluto scongiurare, fermando Sandra, un attimo prima dell’azzardo di cui sopra. Un processo a cui Filippo dovrà sottoporsi, difeso dal padre, sotto minaccia, sotto torture, perché mai il padre, avrebbe acconsentito ad simile procedura. Purtuttavia, cercherà una soluzione in Corte di Assise, facendo riferimento non tanto all’arresto della nostra Corte Costituzionale, ed ai fantomatici “trattamenti di sostegno vitale”, ma negli art. 114 e 115 del Codice Penale elvetico, che considerano lecito il suicidio assistito, purché l’agente non agisca per fini egoistici.
Il padre non condivide il gesto del figlio e lo ripete e piè sospinto, gridando, supplicando, inveendo. Però lo considera un gesto lecito, perché mosso dalla nobiltà d’animo, dal coraggio e dalla fierezza.
Il giudizio terminerà con una questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte.
Il libro terminerà, con il tenero gesto della figlia del professor Martinelli, ormai abituata al clima londinese, che ritira un pacco in pasticceria, poi corre a casa dal lavoro, trafelata, apre il pacco, tira fuori la torta, accende la candela e l’ammira ardere per alcuni secondi, per poi esclamare:” Auguri papà’”.
Insomma, se vuoi vivere, come dice Paul Valery, vuoi anche morire, oppure non capisci che cos’è una vita. In questo nostro caso, una vita degna di essere vissuta.