Già perché parlo di Massimo Carlotto, oggi affermato scrittore, drammaturgo, giornalista, e saggista italiano?
Innanzitutto perché ha scritto un ultimo suo libro “Danzate su di me” che è un piccolo gioiello, fatto di una serie di racconti, genere a cui si dedica con parsimonia, declinati tutti al femminile.
Tre storie, tre voci, diverse, accomunate da una identità ancora da costruire, in una società, che, semplicemente, non la prevede.
Nel racconto “Niente più niente al mondo” Carlotto trae spunto da un fatto di cronaca nera, che ci porta con lo sguardo ad una donna, ai margini di ogni scala economica, sociale, culturale, familiare.
Annullata da un marito assente, sola ad affrontare un mondo che arriva mediato dalla televisione o dalle offerte dei discount, frustrata dalle ambizioni di una rivalsa per procura, che la figlia non ha intenzioni di assecondare, è vittima e carnefice allo stesso tempo, e si fatica a decidere quale dei due aspetti prevalga e se abbia senso la nostra necessità ad esprimere un giudizio definitivo sulle persone. In fondo, in una società tanto ingiusta, ha senso pretendere giustizia nelle aule di tribunale?
Poi il “Giardino di Gaia”, racconto che trae spunto da una intercettazione, e che fotografa una certa realtà locale, locale ma non troppo, in cui corruzione, tradimento, menzogna e controllo, coniugato all’ambizione, si inseguono spiraleggiando in un finale nerissimo e desolante, che non risparmia nessuno.
L’ultimo racconto, “Il mondo non mi deve nulla”, è il più lungo ed offre una visione ed uno spunto di riflessione sui crimini di una finanza priva di qualsiasi dimensione etica, introducendo una figura femminile affascinante, lucida e spietata, in primis nei confronti di sé stessa. Si tratta di una storia, che non si riesce ad incasellare facilmente, in cui i protagonisti si alternano in un carosello in cui diventa impossibile affibbiare le etichette consuete di buoni o cattivi.
Ma perché recensire Carlotto?
Perché i suoi libri aprono più porte di quante intendano chiuderne e sollevano domande destinate a rimanere senza risposta? Forse, ma forse anche per il suo passato, che se letto ci lascia ogni volta in balia di un lieve turbamento, una vertigine che costringe a strizzare gli occhi nel tentativo di ritrovare un fuoco, dei punti di riferimento interiori, senza tuttavia riuscirci facilmente o persino del tutto.
“Anni Settanta”, Massimo Carlotto era un giovane militante di Lotta Continua quando fu protagonista di un caso giudiziario di cronaca nera: fu accusato di aver ucciso con cinquantanove coltellate una giovane di ventiquattro anni. Condannato dopo una lunga serie di processi a sedici anni di reclusione, fu graziato, dopo sei anni di carcere dal presidente Oscar Luigi Scalfaro.
Ma questo non è che l’ennesimo caso di cattiva amministrazione della giustizia italiana, dove si cerca un colpevole, invece del colpevole, si spendono soldi, si mette alla pubblica gogna il soggetto, che fino a sentenza definitiva è innocente.
Il caso giudiziario Carlotto, ove l’imputato si è sempre professato innocente, ruota intorno all’uccisione di una giovane donna, come suddetto, tale Margherita Magello, e può essere definito come un’odissea giudiziaria, per il protagonista.
Ma è anche una storia criminale che non ha avuto giustizia, non essendosi mai trovato il vero colpevole dell’efferato delitto.
Il 20 Gennaio 1976, Massimo Carlotto, si trova a passare in bicicletta davanti alla casa della sorella, che abita nello stesso stabile di Margherita, la ragazza uccisa.Sente delle grida che invocano aiuto, entra nell’appartamento che ha la porta aperta, e scopre nel ripostiglio la giovane, nuda e ricoperta di sangue, agonizzante.
Massimo cerca di soccorrere la vittima, si sporcherà del suo sangue, ma poi, anziché avvertire la polizia, preso dalla paura, fugge. Solo dopo aver raccontato l’episodio a due amici e un avvocato, si presenta sua sponte dai Carabinieri.
Il suo ruolo di testimone durerà appena cinque minuti perché i militari gli contestano subito l’accusa di omicidio.
In primo grado viene assolto per insufficienza di prove dalla corte di Assise di Venezia, per poi essere condannato a 18 anni dalla Corte d’Assise di Appello di Venezia. Pena confermata dalla Cassazione, nel 1982.
Carlotto si dà alla fuga. Prima in Francia, poi in Messico, ma dopo tre anni di latitanza viene catturato e torna in Italia.
Nascono vari comitati per la revisione del processo, di cui il primo firmatario di uno di questi è il Presidente della Corte Costituzionale Ettore Gallo. Anche lo scrittore Jorge Amado, lancia un appello per la revisione del processo.
Il tutto mentre Carlotto si ammala gravemente in carcere. Nel 1989 la corte di Cassazione ordina la revisione del processo, ma la corte di Appello di Venezia emette una ordinanza di sospensione della causa, con rinvio alla Corte Costituzionale.
La sentenza della Corte Costituzionale, arriva nel 1991, ma nel frattempo, il Presidente del Collegio è andato in pensione ed è perciò necessario un nuovo giudizio, nel quale Carlotto viene condannato prima a sedici anni e poi graziato.
Massimo Carlotto, ha sempre denunciato lo smarrimento di due prove a suo favore: un fustino con tracce di sangue, come non appartenenti né a Carlotto né alla vittima; la seconda prova è un capello di un colore diverso da quello di Carlotto, ritrovato tra le unghie della vittima e, probabilmente, appartenente all’aggressore. Mai sono state poi rilevate completamente le impronte digitali nell’ambiente.
Vengono individuati errori nelle piantine della casa, constatando vie di fuga alternative per l’assassino e non considerate dai carabinieri.
Abbiamo detto come la Cassazione rinvii alla corte di Appello di Venezia i punti che avevano formato oggetto di revisione. Ma si ha uno stop. Questo perché i giudici sono in forse se giudicare l’imputato secondo il nuovo codice di procedura penale (entrato in vigore nel 1988).
Abbiamo summenzionato, la sentenza della corte di Appello che affermava la incertezza obiettiva, che legittimerebbe una prospettazione accusatoria, in termini insufficienti per condannare.
Il giudice ritiene di non poter confermare la condanna e dubita se il Carlotto stesso debba essere assolto con formula piena o dubitativa. Arriva la sentenza della Corte, si giudica secondo il nuovo codice che, in base alle nuove prove emerse, sarebbe un giudizio di assoluzione con formula piena.
Il giudice remittente, propenso a dichiarare l’innocenza di Carlotto, va però in pensione, e si va tutti a casa.
Nuovo giudizio, dove, a sorpresa, Carlotto viene condannato a 16 anni dopo un solo mese di udienze.
Nuovo giudizio che ignora le perizie e le prove a discarico emerse e portate dall’imputato.
Insomma, per farvela breve, lo Stato italiano ha visto un imputato, tale Massimo Carlotto, giudicato da 86 giudici, che subirà 11 sentenze e sette processi. Quattro sentenze lo condannano e due lo assolvono. Carlotto alla fine finirà graziato dal presidente Scalfaro.
Questo che state leggendo è un articolo diverso dagli altri. Vuole fare emergere quanto lo Stato Italiano spenda per gli errori giudiziari: circa 2 milioni di euro all’anno di risarcimenti, senza contare le detenzioni ingiuste, che sono un’altra cosa.
Ha fatto recentemente scalpore l’assoluzione dell’ex pastore sardo Beniamino Zuncheddu, dopo 32 anni di detenzione, che ha dimostrato come la sua incarcerazione sia stata uno dei più gravi errori della storia giudiziaria italiana.
Fu arrestato perché non aveva un alibi solido e non riuscendo a dare spiegazioni convincenti alla procura. La svolta, se così si può affermare, arrivò da un testimone, che indicava lo Zuncheddu come responsabile del triplice omicidio, mentre prima di quel momento, non aveva potuto sostenere e riconoscere l’assassino perché aveva il volto coperto da una calza!
Per ritornare ai fatti di errori giudiziari, abbiamo detto essere questo diverso, rispetto all’ingiusta detenzione, quando cioè una persona patisce una limitazione della propria libertà personale, senza essere stata condannata. Per stare a queste ingiuste detenzioni, dal 1992 al 2022 i casi sono stati oltre 30 mila, con indennizzi costati 846 milioni di euro, mediamente 27,3 milioni di euro l’anno. Solo nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, con una spesa per gli indennizzi di 27,4 milioni di euro.
Non dimentichiamo “il caso Tortora”. Il noto presentatore fu accusato dal giudice Fontana di gravi reati, ai quali in seguito risultò totalmente estraneo, sulla base di accuse formulate da soggetti provenienti da contesti criminali; il 17 Giugno 1983 fu per queste testimonianze arrestato e imputato di associazione camorristica e traffico di droga.
Dopo sette mesi di reclusione in carcere e gli arresti domiciliari, i due pubblici ministeri del processo, Lucio di Pietro, e Felice Di Persia, ottennero la sua condanna a dieci anni di carcere.
Venne infine assolto dalla corte di appello di Napoli, sentenza poi confermata in Cassazione.
Emblematica nella vicenda, in cui meglio è non addentrarsi per non stimolare sentimenti di odio ed amarezza, la lettera che scrisse Sciascia a proposito del “caso Tortora”:
“Quando l’opinione pubblica, appare divisa su qualche clamoroso caso giudiziario, divisa in “innocentisti” e “colpevolisti”, in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommette su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Il caso Tortora è in questo esemplare: coloro che detestavano i programmi televisivi condotti da lui, desideravano fosse condannato; coloro che invece ai quei programmi erano affezionati, lo volevano assolto”.
Chiudo con un altro caso datato ma emblematico di errore giudiziario, quello del presentatore, musicista e cabarettista Lelio Luttazzi (spiace accostarlo al pastore sardo, ma la legge è diseguale per tutti in Italia, a quanto pare).
Nel maggio del 1970, all’apice del suo successo, Luttazzi viene arrestato insieme a Walter Chiari, con l’accusa di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.
L’arresto avviene in seguito all’intercettazione di una telefonata, in cui Luttazzi si era limitato a girare ad uno sconosciuto un messaggio avuto da Walter Chiari.
Lo sconosciuto si rivelò uno spacciatore. Walter Chiari, che si trovava a Bologna, aveva telefonato a casa Luttazzi, lasciando alla governante un messaggio:” Maria, sono Walter Chiari, dica al maestro Luttazzi di chiamare questo numero, perché lui dall’albergo non riusciva. Fatta la telefonata, ed intercettata, Luttazzi fu accusato e trattenuto a Regina Coeli per ventisette giorni, salvo poi essere rilasciato e la sua posizione stralciata. Carriera minata, sentimenti deturpati, e fonte di ispirazione per il film “Detenuto in attesa di giudizio” con Alberto Sordi.
Tutto questo preluderebbe a che io parlassi di Stasi e mi pronunciassi su di lui. Non ora e non qui, anche se immaginerete il mio pensiero.
Come dire, “Ai posteri l’ardua sentenza”. Mai motto fu più appropriato!