L’alchimia in una coppia è una intesa profonda e duratura tra due persone basata su una connessione fisica ed emotiva.
Più che altro un mistero.
Un mistero che combina elementi biologici ed affettivi, affinità elettive, un risultato, un effetto originale e raffinato a seguito di quella attrazione dirompente ed immediata, profonda e carnale che è l’amore, che dura troppo poco, il tempo di un passaggio di un treno merci, un viaggio, un anno o forse due. Per questo facciamo fede sulla ricerca di una intesa forte ed affettiva, emotiva ma anche intellettuale.
Rispetto, fedeltà, gentilezza, capacità di condividere responsabilità e sacrifici. Il termine stesso, alchimia, deriva dall’antica arte di trasformare il piombo in oro, vi ho detto tutto.
Ma perché questo “pippone” sull’alchimia, sull’amore, sulle intese e le complicità? Perché nel nuovo romanzo di Diego de Silva, apprezzato scrittore, noto per i personaggi dell’Avvocato Malinconico, tutto questo viene fuori.
Messo da parte il personaggio forense, dal cognome indicativo, l’autore ci consegna un libro particolare, da assaporare lentamente, pieno di una prosa che assume i contorni dei temi universali. L’autore dice:” è il libro che dovevo scrivere a sessant’anni”. Infatti c’è un po’ di tutta la sua vita dentro il testo. Della sua vita e del suo passato.
Due storie d’amore finite, di cui una un matrimonio e la seconda una lunga convivenza; la malattia (l’autore ha rivelato di aver avuto due volte un tumore), l’esperienza di avvocato: ”per quanto tu possa cercare di rubacchiare alla vita che scappa qui e là, tra le pagine, comunque devi togliere te stesso. Perché raggiungi veramente un lettore quando dici quello che può riguardare anche la sua biografia”.
Fosco e Alice sono i protagonisti di questo romanzo, che è forse intriso di tristezza, ma educativo ed indicativo di cosa sia il vero amore, l’alchimia appunto, la chimica.
Loro si sono amati tanto, e tra poco, senza sapere bene perché, si diranno addio. Davanti ad un giudice Fosco dirà che non ha nessun potere o autorità per dirci cosa dobbiamo fare. Un uomo “cattivo ed insensibile”. Nel vortice di parole che ci sorprende, più o meno giuste che siano, più o meno sbagliate, tra abbracci notturni, porte sbattute, avvocati nuovi di zecca e antiche recriminazioni, i personaggi decidono di raccontare la loro storia a modo loro.
Con ostinazione, dolore e persino ironia. L’una affidando la separazione ad un avvocato di grido che tira fuori le unghie come un felino arrabbiato, vomitando, nelle memorie difensive, tutto quello che di brutto c’è in Fosco. Lui che invece, replica con uno stringatissimo atto, come a dire:” fai tu”.
L’amore non è una storia, ma due storie, per questo Fosco e Alice, hanno affidato ai loro rispettivi legali, le parole che non sanno, non vogliono o forse non possono dirsi.
Alice aspira ad una conclusione più drammatica, come se un grande amore si misurasse dalle ferite, dal male che è possibile farsi. Vuole enfasi, conflitto, palcoscenico. “Si va in scena”. Per fortuna non ci sono figli.
Quanti bambini e storie di affidamenti e condivisioni andate più o meno bene, per le menzogne delle mogli? Figli, che sono a tratti dei burattini nelle mani delle madri e dei padri. Questi ultimi, per un vetusto risentimento nei loro confronti, hanno poi sempre la peggio.
Fosco, il coniuge più “orsacchiotto”, che ancora dorme e condivide il letto con Alice, cerca disperatamente il “perché” di questa rottura che non comprende.
Egli è più morbido, a tratti passivo, incline ad accettare qualsiasi condizione.
Alla fine, come in tutte le separazioni, le loro posizioni, si tradurranno in documenti mortificanti, che nulla dicono perché nulla sanno di una vita insieme. Che riassumono il dolore, e anche la gioia, l’amore e l’odio, in parole povere. Per riscrivere i titoli di coda della loro separazione, della loro storia, del loro legame, cosa fanno i due coniugi? Una cosa inaspettata: decidono di ritirarsi in una casa amata e poi venduta.
La affittano per un breve periodo, tra fantasmi del passato e di ciò che è stato tradito, che siano gli anni felici dell’infanzia, quando Fosco diceva che bisognasse per forza sfruttare quella casa, che poi diventa una prigione, una schiavitù (come tutte le case di vacanza d’altro canto).
L’infanzia, come il tempo bello in cui si impara il mondo, come fa il cucciolo di un cane, che il mondo lo annusa e non sa se gli piace veramente.
L’infanzia, dove si cercano e si trovano gli amici di sempre ed il loro stesso legame. Trovarsi li in quella casa, significa cercare un fuoco comune: il loro fuoco. Significa attraversare in due i rimpianti, fino ad esaurire la sofferenza, estraendo dalle macerie il tempo di ciò che rimane vivo, trovando la forza di andare avanti. Financo andando addosso alle cose, persino quando ci fanno paura, senza rinunciare all’ironia che lo contraddistingue, che contraddistingue il personaggio di Fosco (che è poi Diego De Silva) che riesce a raccontare, le speranza, le delusioni, le felicità sepolte e quel complicato groviglio di sentimenti che accompagnano da sempre la fine di un amore.
Forse lasciarsi è solo un prendersi la scena per reagire alla frustrazione del ruolo di comparse a cui la vita ci ha retrocesso.
Ma è poi così sbagliato fare le comparse?
De Silva sa quello che dice. Preferisce un percorso di coppia più quotidiano, che alterni malinconia e serenità, momenti buoni ad altri meno brillanti. L’autore nel libro dice: ”perché sono le minuzie che modellano la vita insieme. I piccoli gesti ricorrenti con cui disegniamo le parole nell’aria, i tic (che l’altro ben conosce e tollera oppure ama, se ti ama proprio tanto), le pause che ci prendiamo per ribattere, sono la punteggiatura della convivenza”.
Alice è un medico, Fosco fa lo scrittore. Le loro voci si alternano ma non si sovrappongono mai, non si alterano mai in eccesso. Non ci sono eccessi di rabbia, perché lui calma lei, che sa com’è fatta e non obietta.
Tutto è condiviso in questo libro, anche le parole bellissime e lucide dello scrittore: ”l’amore è discreto nel morire, non si lamenta, non fa scenate, non c’informa quando si ammala”.
Siamo noi a risponderne, e tutto quello che gli capita è colpa nostra.
Ma non siamo all’altezza di questa responsabilità, anche se in buona fede affermiamo di assumercela. Allora, molto semplicemente non facciamo nulla. Ci affidiamo al silenzio. Gli diamo il compito di sfinirci, e di logorare la convivenza, finché uno dei due non si incarica di ufficializzare la fine, dandole la vita, annunciandone tempi e modalità.
Da quel momento il tempo si dilata, e si fa esperienza della peggiore estraneità: quella fra due persone che non si spiegano, come abbiano fatto a vivere per tanti anni con qualcuno, con cui non hanno più niente da dirsi. Di cosa parlavano prima, di cosa era fatta la loro unione e perché ci hanno messo tanto, così tanto, a pronunciare la parola che li ha tirati fuori dalla gabbia al suono di cinque sillabe? E’ impressionante la rapidità con cui le parole taciute a lungo, disintegrano assetti e convenzioni considerati immodificabili, smentendo il luogo comune che attribuisce all’abitudine il potere di resistere al tempo e all’infelicità: no, l’abitudine non ha altra forza che la nostra omertà, il potere che le conferiamo tacendo; l’abitudine è un segreto di Pulcinella, è il tappeto sotto cui nascondiamo la polvere dei rapporti finiti. Basta semplicemente sollevarlo, con intenzione o per inciampo (il più delle volte è inciampando che si smuovono le cose e che si creano le situazioni)”.
Il fascino di questo romanzo, bello e per nulla affatto scontato, è che ti fa immedesimare nella realtà e nella verità, acquisita da un chiunque essere raziocinante, di dover sempre tener presente che un problema, una sofferenza, non si risolvono, si possono solo superare.
Non sono fatti per essere capiti, ma vissuti. “Forse allora, la speranza non è attesa, dice l’autore, e nemmeno fiducia”. Forse la speranza è incrociare per strada qualcuno a cui tenevi la mano un tempo, e riconoscerlo mentre si allontana e non ti vede, seguendolo con gli occhi, mentre rallenta e poi si ferma, come avesse sentito qualcosa, un sospetto, una presenza, è un attimo, fa per voltarsi, poi scuote la testa e rinuncia.
Insomma dovremmo avere ed immaginarci una nuova versione di noi, in una sorta di coscienza della emozione, invece che farci travolgere dalla rabbia e dalla disperazione. Troppo difficile eh? Purtroppo però, la rabbia, la disperazione, la frustrazione, l’orgoglio, a lungo termine, indeboliscono i nostri colori e ci sopraffanno.
Non identifichiamoci troppo con esse, perché così troveremmo spazio per la cosa opposta che c’è dopo una fine: un nuovo inizio, una nuova avventura.
Questa misura esatta delle parole, perfettamente adeguate a riflettere sentimenti e pensieri, è alla base della scrittura introspettiva dell’autore, De Silva e del suo patto con il lettore, in virtù del quale, chi si appassiona alle sue storie sa che lui non gli mentirà mai, suggerendogli anzi non solo di guardarsi dentro, ma anche di ridere di sè senza drammatizzare, senza mai prendersi troppo sul serio.
Chiudo con una frase di Oriana Fallaci, tratta da “Un uomo” suo libro, che recensirò a breve.
“E’ la vita. A volte credi che due occhi ti guardino e invece non ti vedono neanche. A volte credi d’aver trovato qualcuno che cercavi e invece non hai trovato nessuno. Succede. E se non succede, è un miracolo. Ma i miracoli non durano mai”.